Dal libro "Isole di cultura"
XIII Comuni/XIII Comaunj -
Zimbrische Gemeinschaft in der Provinz Verona
E' la Lessinia, bella e vicina...terra misteriosa dal cuore di pietra...montagna delle pietre del fuoco...verde balcone naturale sulla città di Giulietta e Romeo...terra dei Cimbri.
Sono questi alcuni degli slogan che nel recente passato hanno contraddistinto questo territorio montano posto a nord della città di Verona e ne hanno fatto un luogo oggi riscoperto per le sue valenze ambientali e per il suo cuore antico, fatto di tradizioni, di lingua e di cultura.
Una montagna dolce, solcata da cinque vallate, dette vaj, che la tagliano verticalmente e che nei secoli hanno costituito un limite oggettivo al suo attraversamento.
Altopiano ondulato a nord di Verona, a forma di trapezio e delimitato dall'incisione profonda della Val d'Adige ad ovest, dalla Valle dei Ronchi e dal gruppo del Carega a nord, naturale confine con il Trentino, e dalla Valle del Chiampo che la delimita dalla ricca provincia di Vicenza ad est, fino a digradare dolcemente sulle colline e sui vitigni rinomati della Valpolicella e del Soave, fino a raggiungere la pianura Padana.
Altopiano soleggiato e difeso a nord dai monti che lo contornano come una corona, le cui maggiori elevazioni sono costituite dal Corno d'Aquilio (1545 m.s.m.), il Corno Mozzo (1535 m.s.m.), il monte Castelberto (1751 m.s.m.), il monte Tomba (1766 m.s.m.). Verso il confine vicentino i monti Telegrafo, Cima Lobbia, Gramolon e Zevola che non raggiungono i 2000 metri; la Lessinia si congiunge con le Piccole Dolomiti del gruppo del Carega.
Nelle cinque valli denominate vaj, partendo da est, Valpolicella, Valpantena, Val Squaranto, Val d'Illasi e Val d'Alpone, scorrono dei torrenti che le incidono in modo profondo.
In Valpolicella, nella valle dei Progni a nord di Fumane, scopriamo le incantevoli cascate di Molina, 150.000 metri quadrati di verde dove la natura gioca tutta la sua fantasia con cascatelle allegre e vorticose e una flora molto interessante.
Proseguendo poi più a nord-est si può vedere il Ponte di Veja, fenomeno naturale unico che per la maestosità e l'imponenza secondo la tradizione pare abbia ispirato Dante nella descrizione delle Malebolge e di sicuro ha impressionato il Mantegna che lo ha ritratto nei suoi dipinti.
Sono luoghi ameni e suggestivi, che introducono il visitatore tra anfratti nascosti di rocce e rivoli incantevoli di acque che scavano e si introducono nelle viscere della terra creando suggestioni e spettacoli indimenticabili con il loro errante cammino.
In questo territorio ondulato e dolcissimo, molto rilevante è il fenomeno carsico dell'abisso della Spluga della Preta, con i suoi quasi mille metri uno dei pozzi naturali più profondi del mondo.
Ma la Lessinia è anche il regno delle malghe: le tipiche costruzioni di pietra e lastre che hanno nei secoli punteggiato il territorio con il loro uso particolare ed hanno trasformato il territorio con grandi rilevanze dal punto di vista della tipicità dell'architettura.
Altro fenomeno degno di una visita è il Covolo di Camposilvano, esempio di carsismo molto interessante costituito da una voragine profonda più di 70 metri, generata dall'azione di dissoluzione prodotta dalle acque sulle rocce calcaree, dando luogo alla formazione di una grotta sotterranea che è in parte crollata dando origine ad una enorme caverna sotterranea.
Non meno suggestiva è la Valle delle Sfingi, dove enormi blocchi di rocce di rosso ammonitico affiorano dal terreno creando uno spettacolare scenario magico che ha suggestionato la fantasia popolare ed ha fatto nascere varie leggende di orchi e fate.
In questi scenari avvolti nella storia delle "fade", tra orchi burlevoli e fiabe incantate, sono sorti nei tempi varie storie e leggende che hanno arricchito la fantasia ed hanno reso meno tragica la vita spesso dura e grama delle genti montane nel lavoro della terra e del bosco.
A riprova della fede e della religiosità delle genti cimbre, sono ancora numerose le tante edicole e le colonnette votive, ma anche gli affreschi o pitture murali rappresentanti molto spesso la Madonna ed i Santi protettori, rappresentati per ottenere la salvezza dalle ricorrenti pestilenze o le malattie delle persone e degli animali.
Non tutta la Lessinia è stata colonizzata dai Cimbri, le popolazioni bavaro-tirolesi insediatesi a partire dal Medioevo: solo tredici comunità sono state fondate e di questi antichi nuclei sono rimasti attualmente otto comuni.
Lo spopolamento del territorio in varie migrazioni dalla fine dell'Ottocento e in maggior consistenza nel Novecento, hanno sortito la drastica diminuzione della consistenza dei nuclei abitativi dei comuni montani e degli insediamenti nelle contrade, sia dal punto di vista della presenza umana che dell'allevamento bovino ed ovino.
Delle antiche tredici comunità (Erbezzo, Boscochiesanuova, Cerro, Valdiporro, Velo, Roverè, Saline, Tavernole, Sprea cum Progno, Azzarino, Camposilvano, San Bartolomeo, Selva) rimangono i comuni di:
Erbezzo, con una popolazione di circa 800 persone;
Boscochiesanuova, con 3000 persone;
Cerro, con 2000 circa;
Velo Veronese, con 900 abitanti;
Roverè Veronese, con 2000 persone;
San Mauro, con poco più di 500 residenti;
Badia Calavena, con 2000 abitanti;
Selva di Progno, con circa 1000 abitanti.
Come si vede una popolazione con poco più di 12.000 abitanti.
I comuni del territorio dove i Cimbri hanno trovato casa e lavoro si trovano in una fascia altimetrica compresa tra i 400 di Badia Calavena e gli oltre mille metri di Erbezzo e Boscochiesanuova.
Dal 1990, su alcuni di questi comuni e su altri che non ne fanno parte, si estende il Parco Naturale Regionale della Lessinia, un parco di recente costituzione che ha le finalità di tutelare le varie emergenze naturalistiche, ambientali, geologiche, faunistiche, oltre che storico-culturali e linguistiche del comprensorio.
I comuni della fascia più elevata (dagli 800 ai 1200 metri) si caratterizzavano un tempo da quelli del fondo valle per la loro economia prevalentemente silvo-pastorale e per l'allevamento bovino ed ovino, con le attività ad esse connesse, come la produzione ed il commercio del carbone di legna, del ghiaccio e dei prodotti caseari.
I comuni della fascia sottostante si distinguevano anche per la produzione di olive e viti e con intense piantagioni di mais e cereali, indispensabili alla autarchica sussistenza delle popolazioni.
Oggi le diversità di un tempo si sono attenuate e sono sorte attività turistiche ed alberghiere capaci di avviare la Lessinia sul sentiero dello sviluppo e di creare le condizioni per un uso più efficace delle risorse e delle potenzialità turistiche ed ambientali.
L'economia agricola e di sussistenza del passato ha lasciato comunque tracce indelebili nel territorio, nelle contrade, nei muretti a secco, nelle recinzioni, nei capitelli, nelle stalle, tutti costruiti con il tradizionale e sapiente uso della pietra.
Ora questo assetto durato secoli, in una straordinaria sintesi di cultura e rispetto del proprio territorio, si va progressivamente dissolvendo, anche se non mancano segni incoraggianti di azioni in senso opposto.
La salvaguardia di questo habitat diventa compito ineludibile affinché il fascino di questo ambiente unico, del silenzio degli alti pascoli e del regno delle mandrie sonanti nell'estivo alpeggio, del verde incontaminato delle foreste, della particolarità dei fenomeni naturalistici, delle manifestazioni tipiche dei vari paesi, della profondità delle ricerche di istituzioni culturali, possano tener viva nella popolazione la coscienza della propria identità storica e culturale, della ricchezza della propria lingua e del valore del proprio ambiente.
Bibliografia:
Itinerari in Lessinia, Centro Turistico giovanile-Grafiche P2, Verona, 1990
Giuseppe Rama, Guida alla Lessinia, Edizioni La Libreria di Demetra, 1996
Una montagna chiamata Lessinia, depliant dell'Az.di Promozione Turistica 35 della Lessinia
Eugenio Cipriani, Escursioni in Lessinia orientale ed occidentale, Cierre ediz.1988-89.
La zona alloglotta sui monti a nord di Verona venne definita inizialmente le Montagne dal Carbon (o anche, al singolare, la Montagna dal Carbon), a causa dei numerosi fumi delle carbonaie che si vedevano dalla pianura; la più importante attività commerciale dei Cimbri, infatti, fu quella della produzione del carbone dolce. Un altro nome contemporaneo del territorio è le Montagne dei Todeschi. Queste denominazioni entrano in uso a partire dall'inizio del Quattrocento ed è solo dal 1616 che subentra ufficialmente il nome di XIII Comuni, a indicare i noti villaggi tedescofoni di Erbezzo, Bosco Chiesanuova, Valdiporro, il Cerro, S. Mauro di Saline, Tavernole, Roveré, Velo, Camposilvano, Azzarino, Selva di Progno, S. Bortolo, Badia Calavena. Va notato che l'espressione "Comuni" non va intesa nel senso moderno del termine: si trattava di semplici abitati, di comunità a volte piccolissime (come Tavernole).
Prima del Quattrocento la zona era detta soltanto i Lessini, o i Monti Lessini. Questo toponimo è di etimologia ignota, ma risale con ogni probabilità a una voce retica oppure etrusca.
Per molto tempo, gli abitanti delle montagne a nord di Verona sono detti "Tedeschi" nei documenti che li riguardano (concessioni di privilegi, compravendite di terreni, ecc.). Il nome si alterna agli altri con cui nel Medioevo è abituale riferirsi ai Tedeschi: "Teutonici" e "Alemanni". Quando viene a mancare un parroco, gli abitanti del comune interessato si rivolgono immediatamente al vescovo affinché glie ne trovi uno che conosca il tedesco; questo fatto è una costante della vita dei Cimbri per secoli. Fino al Seicento inoltrato i parroci provengono dai paesi di lingua tedesca, in particolare dalla Baviera. Lentamente, col progredire dell'erosione del linguaggio (il processo di dissoluzione del cimbro ha inizio nella seconda metà del Cinquecento) si cominciano ad accettare parroci non tedeschi: per esempio, Bosco Chiesanuova avrà parroci italiani a partire dal 1578, Roveré dal 1632, Badia dal 1657, Cerro dal 1676.
Non vi è traccia, fino alla fine del Duecento, di una popolazione sui monti diversa da quella della pianura. Questo fu accertato dall'esame minuzioso dei copiosi documenti in nostro possesso relativi ai Lessini; un esame che, però, venne messo in atto soltanto negli ultimi centovent'anni. Prima di questo arco di tempo, la mancanza di cognizioni sulla storia della montagna veronese fece sì che sull'origine dei Cimbri venissero avanzate le più disparate teorie.
La più antica, sostenuta anche dal grande Scipione Maffei, vuole che i Cimbri rappresentino i discendenti dei Cimbri sconfitti dai Romani nel 101 a.C. ai Campi Raudii. Costoro erano un popolo scandinavo stanziato fino al 120 a.C. circa nella penisola dello Jütland. Secondo un'ipotesi (ripresa con, apparentemente, maggiori argomenti qualche decennio fa), il luogo della débacle dei nemici di Roma non sarebbe stato situato nei dintorni di Vercelli, come generalmente si credeva in passato, ma nella piana tra Ferrara e Rovigo. I Cimbri si stavano dirigendo verso Roma dopo aver percorso la Val d'Adige e oltrepassato Verona; lo scontro finale coi Romani sarebbe avvenuto presso la riva sinistra del Po. Dopo il grande massacro, un gruppo di superstiti si sarebbe rifugiato sui monti a nord di Verona; quivi, nel corso del tempo sarebbero stati romanizzati come tutti gli altri popoli della Val Padana, mantenendo della loro antica origine soltanto il nome nazionale, Cimbri. L'arrivo dei Tedeschi alla fine del Duecento avrebbe in pratica ri-germanizzato una zona che era già stata germanica, molto tempo prima.
L'ipotesi presenta parecchi punti deboli. Innanzitutto, nulla corrobora l'eventuale presenza di questi superstiti cimbri del 101 a.C. sui monti: né la toponomastica, né i nomi personali, né un qualsiasi vocabolo continuatosi nei dialetti locali. Poi, lo stesso nome di Cimbri compare soltanto a partire dall'inizio del Trecento, quindi ben tredici secoli dopo il fatto d'arme. Immaginare che il nome di Cimbri si fosse continuato di soppiatto, senza che nessun letterato o notaio in tredici secoli, né sui monti né nella vicina Verona, vi accennasse talvolta, è assurdo.
Un altro argomento contro l'ipotesi dell'insediamento di un gruppo di Cimbri sui Lessini è quello del luogo della strage. Che la battaglia decisiva sia stata combattuta nel Polesine, tra Ferrara e Rovigo, è difficilmente credibile. I Cimbri si stavano dirigendo verso Roma; era costume di tutti i popoli che si muovessero con carriaggi e bestiame passare i grandi fiumi nei punti dove l'acqua era sufficientemente bassa da consentire il guado. Il traghettamento a bordo di zattere e barche avrebbe richiesto un enorme dispendio di lavoro per approntare i natanti, e oltre a ciò si dovevano mettere in conto le perdite di carri e animali per eventuali rovesciamenti o manovre errate. Era più naturale, quindi, risalire il Po fino a un punto dove esso era guadabile senza grossi pericoli; ciò che ci porta al Piemonte. Il tempo richiesto dallo spostamento (da Verona alla piana vercellese) non costituiva certo un problema, nell'antichità: qualche mese in più o in meno non faceva differenza.
Inoltre, se non consideriamo Plutarco, i molti scrittori romani che parlano della questione cimbra non dicono dove fossero situati i Campi Raudii. Se effettivamente la battaglia si fosse svolta tra le attuali Ferrara e Rovigo, dovremmo attenderci che almeno qualche scrittore accennasse alla vicinanza dei Campi ad Adria, importante porto dei Veneti e degli Etruschi, o a Este, capitale dei Veneti. È evidente, dunque, che il luogo della battaglia si trovava in una zona lontana dai centri della Val Padana familiari ai Romani; ciò che rafforza quanto dice Plutarco, che lo colloca « nella piana presso Vercelli ». (Prima del 101 a.C. Roma era ben lungi dal controllare l'intera Val Padana, disponendo essa delle sole colonie di Cremona, Piacenza, Bologna, Modena e Parma.)
Un autore, Giovanni Costa Pruck (1736-1816, un Cimbro dei Sette Comuni), credette che gli antenati dei Cimbri fossero i Tigurini. Costoro erano un popolo di stirpe celtica, alleato dei Cimbri; secondo l'attestazione dello scrittore romano Floro, dopo la sconfitta dei Campi Raudii si erano rifugiati sulle montagne del Norico, l'attuale Austria. Il Costa Pruck suppose che nel viaggio verso il Norico un gruppo di Tigurini si fosse fermato sui monti tra Verona e Vicenza.
Altri autori del passato credettero che i nostri Cimbri fossero i superstiti di uno dei vari popoli germanici penetrati in Italia al tempo delle invasioni barbariche. Così, Alfonso Loschi, vicentino, sostenne la derivazione dei Cimbri dagli Unni di Attila (in un'opera del 1664); Michelangelo Mariani, trentino, derivò gli abitanti della Vallarsa, di Trambileno e Terragnolo dagli Unni, e quelli di Piné presso Pergine dagli Ostrogoti di Teodorico (nel 1673); agli Ostrogoti riconduceva i Cimbri anche il vicentino Francesco Caldogno (nella nota relazione sui passi alpestri tra Venezia e Impero del 1598). Benedetto Giovanelli, trentino, pensò nel 1826 alla derivazione dagli Alemanni e dagli Svevi venuti in Italia assieme ai Goti di Teodorico.
Modesto Bonato, originario dei Sette Comuni, riconduceva nel 1857 gli abitanti della Val di Cembra agli antichi Cimbri del 101 a.C., e il suo popolo a una serie di insediamenti tedeschi che avevano avuto luogo nel X secolo della nostra era. Agostino Dal Pozzo, anch'egli un Cimbro dei Sette Comuni, nella sua opera pubblicata postuma nel 1820 ritenne acutamente il suo popolo una propaggine dei Tedeschi del vicino Tirolo. Sarà il linguista Johannes Andreas Schmeller a dare una svolta decisiva alle ricerche sui Cimbri: a partire dal 1833, egli giudica correttamente la lingua cimbra un dialetto tedesco, stabilendo che la colonia più antica è quella dei Sette Comuni. Tuttavia, essendo ancora molto lacunose le ricerche storiche, lo Schmeller erra nel concludere che i Cimbri formassero un tempo un unico popolo coi Tirolesi, dai quali sarebbero stati divisi da intrusioni italiane (provenienti da varie direzioni) avvenute nei secoli XII e XIII.
Con le dettagliatissime ricerche storiche dei fratelli Carlo e Francesco Cipolla (seconda metà dell'Ottocento) e con le cruciali indagini linguistiche di Eberhard Kranzmayer (metà Novecento) viene stabilita in modo inequivocabile la derivazione dei Cimbri da piccoli gruppi di Tedeschi bavaresi insediatisi sui monti vicentini in un primo tempo, trentini e veronesi poi. Si trattava di boscaioli e pastori discesi in Italia inizialmente per una carestia verificatasi verso la metà dell'XI secolo nella zona di Benediktbeuern, e in seguito per contatti tra i monasteri benedettini (primi tra tutti quelli di Benediktbeuern e di S. Maria in Organo a Verona).
Nonostante queste inoppugnabili conclusioni, sono state registrate altre nuove ipotesi sull'origine dei Cimbri. Una, il cui alfiere fu Bruno Schweizer (1897-1958), voleva che il primo nucleo dei Cimbri fosse costituito da Longobardi, rifugiatisi sui monti quando i Franchi entrarono in Italia per combatterli. La tesi si appoggiava su alcuni termini particolari del cimbro, peraltro troppo scarsi per darle credito (una manciata di voci); oltre tutto, è ormai accertato che il longobardo si estinse molto presto, già - al massimo - alla fine dell'VIII secolo. Un'altra, sostenuta in particolare da Hugo Resch (1925-95), voleva che il gruppo iniziale dei Cimbri si fosse diretto da Benediktbeuern a Badia Calavena, per essere smistato solo in un secondo tempo verso l'Altopiano d'Asiago. Il lato debole della teoria è che l'abbazia di Calavena fu fondata solo attorno al 1120, circa settant'anni dopo la presunta carestia che avrebbe spinto i Cimbri in Italia. È evidente che essa non giocò nessun ruolo nel primo arrivo dei Cimbri.
Le scoperte dei Cipolla e dei linguisti tedeschi sono state decisive per comprendere la vera natura dei Cimbri. Ciò nonostante, stenta a morire il pregiudizio dell'origine più lontana di questo popolo. Ancor oggi v'è chi sostiene che, ferma restando la colonizzazione tedesca a partire dall'XI secolo, deve essere esistito qualche tempo prima un altro nucleo germanico più antico, sul quale i nuovi Tedeschi si inserirono. Si deve riconoscere, tuttavia, che nulla nelle zone cimbre ci autorizza a pensare a questo; ed è ben singolare che, se effettivamente esistette un sostrato germanico prima dell'arrivo dei coloni del Mille, nulla di esso sia rimasto, né un nome di località, né un nome di persona, né un qualsiasi altro termine.
Si riconosce oggi unanimemente che i primi Cimbri giunsero sull'Altopiano d'Asiago verso la metà dell'XI secolo; da qui essi si diffusero verso Posina, quindi verso l'altopiano della Folgaria, e successivamente verso il Veronese. Quivi essi ottennero di stanziarsi, con un atto vescovile del 1287, in un'area dei Lessini avente al centro il villaggio di Roveré, in quel tempo quasi disabitato. Probabilmente, l'arrivo di coloni tedeschi sui monti veneto-trentini fu quanto mai gradito: la popolazione indigena dei monti era scarsa, e le nuove forze avrebbero contribuito a rifornire di prezioso legname le città della pianura.
È notevole come poco dopo il Trecento i nuovi arrivati sulle montagne vicentine comincino a essere chiamati non più Tedeschi, ma Cimbri. È notevole anche, tuttavia, come questo nome sia usato per lungo tempo solo negli ambienti letterari vicentini. Da questi il nuovo nome si diffonde nel mondo letterario veronese, e solo assai tardi penetra tra le popolazioni interessate (forse addirittura soltanto nel corso del Settecento). Che il nome sia di formazione non indigena appare chiaro dal fatto che i Cimbri dicono di essere Tzimbarn, ma quando devono spiegare che lingua usano dicono bar reidan tautsch, « noi parliamo tedesco » (a Giazza).
È accettato oggi che il nome di Cimbri rappresenti l'alterazione veneta di un termine che i coloni stessi usavano. Il boscaiolo tedesco doveva spesso qualificarsi come Zimberer, «carpentiere, lavoratore del legno, boscaiolo», dando per scontata la sua origine tedesca. I letterati veneti, udita la parola, la identificarono subito coi Cimbri del tempo di Roma, e così nacque la leggenda che voleva questa popolazione discendente da quegli antichi guerrieri.
Da Roveré i coloni tedeschi si spinsero ben presto in varie direzioni. Ai nuovi insediamenti contribuivano non solo i figli dei primi arrivati, ma anche coloni provenienti dalle stesse terre da dove erano partiti quelli del 1287 (e cioè dai paesi delle alte valli del Chiampo e dell'Agno). Subito dopo l'inizio del Trecento, una massa di coloni viene chiamata dall'abate della Calavena a dissodare la zona intorno all'abbazia; nasce così l'attuale centro di Badia Calavena, prima del tutto inesistente (si tratta, quindi, dell'unico villaggio fondato solo dai Cimbri, senza che vi fosse una precedente popolazione veronese). I Cimbri lo chiamano kam' Àbato, ossia « dall'abate », usando per "abate" l'antica parola veronese abàdo, con ritrazione dell'accento.
Qualche tempo dopo (verso il 1320-25), i coloni cominciano a diffondersi a nord verso Bosco Chiesanuova, Erbezzo, Valdiporro, Velo, Camposilvano, Azzarino, e a sud al Cerro, S. Mauro di Saline e Tavernole. La peste del 1348 impone una stasi momentanea. Solo molto più tardi, verso la fine del Trecento, i Cimbri colonizzano Selva, Giazza, Campofontana.
L'espansione tedesca sembra concludersi con l'inizio del Quattrocento, quando cioè non vengono più fondati nuovi insediamenti oltre i XIII Comuni. Per far fronte all'aumento della popolazione si costruiscono nuovi edifici o si aggiungono nuove strutture a quelli già esistenti, ma non si esce più dal territorio dei XIII Comuni. Questo stato di cose dura fino alla seconda metà del Cinquecento, quando ha inizio una serie di fatti nuovi che finiranno con l'alterare per sempre le caratteristiche della nazione cimbra, fino ad allora relativamente indipendente e autonoma.
In questo periodo cominciano a diffondersi le armi da fuoco, importantissime per la caccia, che implicano una dipendenza da Verona e dai grandi centri della pianura (per procacciarsi armi, polvere pirica e palle di piombo). Contemporaneamente, si verifica una grande carestia sulla montagna, seguita dalla peste del 1575-76; e con l'inizio del Seicento prende l'avvio un'altra dipendenza dai centri della pianura, dovuta all'introduzione delle nuove piante provenienti dall'America (fagioli, granoturco, tabacco, ecc.). L'autosufficienza economica dei XIII Comuni, dapprima pressoché completa, si riduce sempre di più. In seguito alla carestia, molti giovani avevano cercato lavoro altrove, nelle vallate e nella pianura; ne derivarono molti matrimoni misti tra giovanotti cimbri e ragazze veronesi, prima causa della progressiva sparizione della lingua cimbra. Le spose forestiere andavano a risiedere nei villaggi cimbri, ma anche se qualcuna imparava la lingua locale, fatalmente accadeva che nel complesso il dialetto veronese venisse introdotto sempre più tra i compaesani, restringendo anche senza volerlo l'area del cimbro.
Alla metà del Settecento non si parla più il cimbro a Erbezzo, S. Mauro, il Cerro. A Bosco Chiesanuova, Valdiporro, Azzarino, Roveré, e a Badia Calavena la lingua è usata solo dai vecchi. All'inizio dell'Ottocento, quando il governo del Regno d'Italia filofrancese ordina la sua inchiesta sulle lingue minoritarie del paese, si parla il cimbro solo a Velo, Selva, Giazza, Campofontana, e parzialmente a S. Bortolo. Al tempo dei Cipolla, verso il 1880, il cimbro sopravviveva a Giazza, oltre che parzialmente a Campofontana e in alcune contradine di Selva e Velo. Trent'anni dopo, era rimasta la sola Giazza.
La prima guerra mondiale comportò la costruzione di una strada militare per collegare Giazza, vicina al fronte, alla Val d'Illasi. In precedenza, le comunicazioni tra il villaggio e la pianura erano difficoltose: l'unico sentiero era per lunghi tratti, verso Giazza, una semplice mulattiera in salita. La costruzione della nuova strada tolse Giazza dal suo isolamento, ma i maggiori contatti col mondo esterno significarono la rovina della parlata locale, che venne lentamente abbandonata da gran parte degli abitanti. A ciò contribuirono anche la politica del governo fascista, fortemente contraria a ogni parlata che non fosse l'italiano, e soprattutto l'emigrazione degli anni '30, per cui molti abitanti di Giazza si trasferirono nei grossi centri industriali lombardi e nelle zone bonificate dell'Agro Pontino e della Sardegna. Anche il secondo dopoguerra vide diverse famiglie partire a causa dell'emigrazione, per lo più in direzione delle fabbriche lombarde.
Il Novecento potremmo definirlo come il secolo che ha modificato radicalmente il rapporto che una comunità ed ogni altra persona ha con lo spazio e il tempo a motivo dei grandi cambiamenti avvenuti nell'economia, nella cultura e nella struttura sociale.
Agli inizi del Novecento gli abitanti della Lessinia conoscevano molto bene il luogo in cui vivevano, lo percorrevano a piedi, avendo così un rapporto diretto, affettivo ed emotivo con il territorio che "conteneva" i valori, i simboli, le tradizioni della collettività. E il tempo della conoscenza era qualcosa che si costruiva fin da piccoli andando con i genitori e con "i grandi" nel prato a restrelar, nel bosco a funghi o a raccogliere foglia o legna, percorrendo i sentieri per andare a trovare parenti o per recarsi alle funzioni religiose.
La conoscenza approfondita del territorio era fondamentale perché da essa si ricavava quello che era necessario per vivere, c'era uno stretto rapporto con l'ambiente che non doveva essere distrutto, pena la perdita delle risorse necessarie alla sopravvivenza.
Le attività prevalenti erano legate all'allevamento, al taglio del bosco e all'estrazione della pietra per uso in gran parte locale. Altre risorse tipiche della montagna veronese erano i prodotti caseari, il carbone di legna, la calce, il ghiaccio. Era un'economia soprattutto di autoconsumo che scambiava con l'esterno i prodotti in sovrappiù per procurarsi quelle merci non reperibili in montagna come: il sale, lo zucchero, la farina, la polenta, il tabacco.
Il fatto di vivere in un territorio "difficile" e isolato aveva favorito la costruzione di case e rustici ravvicinati dando origine a quello che è l'insediamento tipico della Lessinia: la contrada. In essa gli abitanti erano spesso parenti tra loro e questo creava dei vincoli di sangue e di solidarietà che si mostravano sia in occasioni di feste come: matrimoni, battesimi, comunioni e cresime sia nei momenti di bisogno (malattie, difficoltà familiari o economiche), sia nella creazione di edifici da usare in comune come i baiti, il forno per il pane e i pozzi per la raccolta dell'acqua. Naturalmente, non sempre la vita scorreva in armonia perché, vivendo nello spazio relativamente ristretto di una contrada con risorse limitate, ogni famiglia cercava di conservare e magari allargare il proprio campéto con conseguenti liti tra confinanti. Possiamo dire che la vita economica e sociale era condizionata da due esigenze a volte contrastanti: da un lato garantire la sopravvivenza della propria famiglia, il che creava invidie e rivalità, e dall'altro la necessità di stare insieme per affrontare le difficoltà, decidere la "politica" locale e gli atteggiamenti da tenere nei confronti dell'autorità a cui si chiedevano esenzioni a causa delle difficili condizioni di vita e delle scarse risorse offerte dal territorio.
Verso la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento i montanari cercarono di acquistare terreni che nei secoli passati erano appartenuti a monasteri o a nobili famiglie di Verona e ciò portò ad un'eccessiva frammentazione del territorio, con la creazione di piccole proprietà.
I fattori che avevano permesso alla società della Lessinia di mantenersi relativamente stabile nel tempo erano stati: l'equilibrio tra popolazione e risorse; un'economia basata prevalentemente sull'autosufficienza; la solidarietà tra i membri della comunità e la condivisione di una cultura e di tradizioni comuni.
Di questi tre elementi il primo a modificarsi era stato, ancora nella seconda metà dell'Ottocento, quello relativo alla popolazione che era aumentata e questa crescita, dovuta alle migliori condizioni igienico-sanitarie, alla diminuzione dei morti per malattie infettive e da un tasso di natalità che si manteneva alto, continua anche nella prima metà del Novecento.
Per risolvere i problemi legati all'aumento della popolazione la società tradizionale adottò due tecniche: da un lato lo sfruttamento delle zone abbandonate o incolte e la pratica di attività illecite (come il contrabbando); dall'altra, l'emigrazione stagionale o permanente verso l'estero, poiché la pianura e le zone urbane attorno alla Lessinia non offrivano sufficienti posti di lavoro.
Di fronte a questo primo fattore che ne incrina l'equilibrio secolare la società tradizionale riesce a resistere perché l'economia è ancora basata prevalentemente sulle risorse del territorio integrate dagli introiti provenienti dagli emigranti e dalla vendita dei prodotti tipici della montagna che sul mercato godevano di buone quotazioni.
L'emigrazione rallenta, nonostante la percentuale di popolazione sia ancora elevata, nel periodo tra le due guerre sia per la politica fascista contraria alle migrazioni che per la crisi del '29 che aveva creato problemi di occupazione anche negli altri paesi.
Con l'entrata in guerra dell'Italia nel 1940 i giovani montanari furono costretti ad arruolarsi e partire per fronti lontani, in Albania, in Grecia, in Africa, in Russia e molti di loro purtroppo non tornarono: la loro memoria è rimasta nei ricordi dei familiari e nei monumenti ai caduti. Dopo l'8 settembre del 1943 anche la Lessinia vive la tragedia della guerra civile che vede contrapposti repubblichini e tedeschi contro le formazioni partigiane e gli alleati. La Lessinia, con le numerose grotte, i ripari e i posti isolati, è servita da nascondiglio a tutti coloro che non volevano saperne della guerra o a quelli che successivamente si sono schierati con i partigiani. Gli episodi più duri e sanguinosi avvennero nella zona orientale della Lessinia dove gli scontri tra partigiani e nazi-fascisti causarono la morte di molte persone ed anche la distruzione di contrade. Nella Lessinia centrale ed occidentale i fatti di violenza si limitarono a qualche episodio probabilmente per la presenza massiccia di forze tedesche che controllavano il territorio.
Alla fine della guerra i ritmi e gli spazi cambiano definitivamente inserendo la Lessinia nei processi di modernizzazione della società italiana che hanno il loro centro nelle città industrializzate del nord. Tutto ciò ha fatto sì che la società tradizionale entrasse in contatto con quella cittadina. Questo ha comportato uno spostamento dei punti di riferimento in quanto sia a livello economico che politico che sociale, il centro non è più la comunità locale ma la società più vasta. Da una società autocentrata che gestiva il proprio territorio e le proprie risorse si è passati ad una società "integrata" in una realtà più ampia che ha il suo centro nelle aree urbane industrializzate.
Da un lato l'universalismo dei valori, dei sistemi di vita, dei tipi di economia ha unificato per così dire il sistema sociale, economico e politico, dall'altra parte la presenza di zone centrale, dove vengono prese le decisioni inclusive quelle delle aree rurali, hanno avuto come conseguenza la marginalità dei territori montani che offrono poche possibilità alle persone e ai gruppi che vi abitano.
I cambiamenti avvenuti in Lessinia sono da attribuire a fattori interni come: la percentuale di popolazione rimane alta fino al 1951; la mancata produzione di alcune merci tipiche della montagna, come il ghiaccio, il carbone, la calce, portando ad un notevole calo di occupazione; il desiderio di una vita più comoda e di un lavoro meno faticoso o più apprezzato socialmente; l'incapacità della società tradizionale di far fronte ai nuovi modelli culturali; la mancanza di una politica unitaria da parte dei comuni della Lessinia per risolvere i problemi della montagna ed arginare l'emigrazione verso le zone urbane e la pianura.
Questi fattori interni sono strettamente legati ai cambiamenti avvenuti nella società esterna, come: lo sviluppo industriale con conseguente richiesta di manodopera; lo sviluppo di una economia di mercato che rendeva più facile la circolazione di merci. La conseguenza per la montagna fu il deprezzamento dei propri prodotti a vantaggio di quelli provenienti da altre zone; la diffusione di modelli culturali che promettevano una vita più facile ed anche più libera da diverse forme di autorità; crisi dei valori tradizionali come il senso del risparmio, della misura, il rispetto per l'ambiente e il sentirsi partecipi di una comunità; la standardizzazione dei valori, dei sistemi di vita, dei tipi di economia, sostenuta dai mass-media, che tende ad eliminare le diversità ed unificare i sistemi sociali, economici e politici; la politica nazionale favorevole alle nuove concentrazioni industriali nelle aree urbano-industriali.
La conseguenza è stata la forte emigrazione del dopoguerra che ha riguardato dapprima le contrade poste più a nord o quelle situate nei posti più impervi e poi ha interessato tutto l'altipiano.
Questi cambiamenti sono ben visibili nel territorio. Molti sentieri che collegavano i paesi e le contrade sono scomparsi in mezzo ai rovi o sono stai sostituiti da comode strade che favoriscono i contatti con le aree di fondovalle e la città; molte case nelle contrade o a volte intere contrade sono state tristemente abbandonate.
Negli ultimi trenta-quarant'anni si è assistito ad un lato al fenomeno di cui abbiamo già parlato: lo spopolamento della montagna e dall'altro alla diffusione del turismo di massa e all'urbanizzazione della Lessinia con il proliferare di villette e di casette a schiera. Lo sviluppo economico delle città e la maggior disponibilità di denaro, hanno favorito l'acquisto, da parte di cittadini o dei montanari che erano emigrati, di seconde case e di appartamenti che permettono di investire i soldi risparmati, di godere i "freschi" durante l'estate e di essere a contatto con un ambiente naturale.
La proliferazione edilizia è stata favorita anche dalle amministrazioni locali perché portava soldi nelle casse dei Comuni e dava da lavorare alla manodopera locale legata al settore dell'edilizia e a quello dell'industria estrattiva e questo ha avuto come conseguenza la continua espansione delle aree edificabili, si sperava in questo modo di contenere l'emigrazione della montagna.
Per risolvere i problemi legati all'aumento della popolazione la società tradizionale adottò due tecniche: da un lato lo sfruttamento delle zone abbandonate o incolte e la pratica di attività illecite (come il contrabbando); dall'altra, l'emigrazione stagionale o permanente verso l'estero, poiché la pianura e le zone urbane attorno alla Lessinia non offrivano sufficienti posti di lavoro.
Di fronte a questo primo fattore che ne incrina l'equilibrio secolare la società tradizionale riesce a resistere perché l'economia è ancora basata prevalentemente sulle risorse del territorio integrate dagli introiti provenienti dagli emigranti e dalla vendita dei prodotti tipici della montagna che sul mercato godevano di buone quotazioni.
L'emigrazione rallenta, nonostante la percentuale di popolazione sia ancora elevata, nel periodo tra le due guerre sia per la politica fascista contraria alle migrazioni che per la crisi del '29 che aveva creato problemi di occupazione anche negli altri paesi.
Con l'entrata in guerra dell'Italia nel 1940 i giovani montanari furono costretti ad arruolarsi e partire per fronti lontani, in Albania, in Grecia, in Africa, in Russia e molti di loro purtroppo non tornarono: la loro memoria è rimasta nei ricordi dei familiari e nei monumenti ai caduti. Dopo l'8 settembre del 1943 anche la Lessinia vive la tragedia della guerra civile che vede contrapposti repubblichini e tedeschi contro le formazioni partigiane e gli alleati. La Lessinia, con le numerose grotte, i ripari e i posti isolati, è servita da nascondiglio a tutti coloro che non volevano saperne della guerra o a quelli che successivamente si sono schierati con i partigiani. Gli episodi più duri e sanguinosi avvennero nella zona orientale della Lessinia dove gli scontri tra partigiani e nazi-fascisti causarono la morte di molte persone ed anche la distruzione di contrade. Nella Lessinia centrale ed occidentale i fatti di violenza si limitarono a qualche episodio probabilmente per la presenza massiccia di forze tedesche che controllavano il territorio.
Alla fine della guerra i ritmi e gli spazi cambiano definitivamente inserendo la Lessinia nei processi di modernizzazione della società italiana che hanno il loro centro nelle città industrializzate del nord. Tutto ciò ha fatto sì che la società tradizionale entrasse in contatto con quella cittadina. Questo ha comportato uno spostamento dei punti di riferimento in quanto sia a livello economico che politico che sociale, il centro non è più la comunità locale ma la società più vasta. Da una società autocentrata che gestiva il proprio territorio e le proprie risorse si è passati ad una società "integrata" in una realtà più ampia che ha il suo centro nelle aree urbane industrializzate.
Da un lato l'universalismo dei valori, dei sistemi di vita, dei tipi di economia ha unificato per così dire il sistema sociale, economico e politico, dall'altra parte la presenza di zone centrale, dove vengono prese le decisioni inclusive quelle delle aree rurali, hanno avuto come conseguenza la marginalità dei territori montani che offrono poche possibilità alle persone e ai gruppi che vi abitano.
I cambiamenti avvenuti in Lessinia sono da attribuire a fattori interni come: la percentuale di popolazione rimane alta fino al 1951; la mancata produzione di alcune merci tipiche della montagna, come il ghiaccio, il carbone, la calce, portando ad un notevole calo di occupazione; il desiderio di una vita più comoda e di un lavoro meno faticoso o più apprezzato socialmente; l'incapacità della società tradizionale di far fronte ai nuovi modelli culturali; la mancanza di una politica unitaria da parte dei comuni della Lessinia per risolvere i problemi della montagna ed arginare l'emigrazione verso le zone urbane e la pianura.
Questi fattori interni sono strettamente legati ai cambiamenti avvenuti nella società esterna, come: lo sviluppo industriale con conseguente richiesta di manodopera; lo sviluppo di una economia di mercato che rendeva più facile la circolazione di merci. La conseguenza per la montagna fu il deprezzamento dei propri prodotti a vantaggio di quelli provenienti da altre zone; la diffusione di modelli culturali che promettevano una vita più facile ed anche più libera da diverse forme di autorità; crisi dei valori tradizionali come il senso del risparmio, della misura, il rispetto per l'ambiente e il sentirsi partecipi di una comunità; la standardizzazione dei valori, dei sistemi di vita, dei tipi di economia, sostenuta dai mass-media, che tende ad eliminare le diversità ed unificare i sistemi sociali, economici e politici; la politica nazionale favorevole alle nuove concentrazioni industriali nelle aree urbano-industriali.
La conseguenza è stata la forte emigrazione del dopoguerra che ha riguardato dapprima le contrade poste più a nord o quelle situate nei posti più impervi e poi ha interessato tutto l'altipiano.
Questi cambiamenti sono ben visibili nel territorio. Molti sentieri che collegavano i paesi e le contrade sono scomparsi in mezzo ai rovi o sono stai sostituiti da comode strade che favoriscono i contatti con le aree di fondovalle e la città; molte case nelle contrade o a volte intere contrade sono state tristemente abbandonate.
Negli ultimi trenta-quarant'anni si è assistito ad un lato al fenomeno di cui abbiamo già parlato: lo spopolamento della montagna e dall'altro alla diffusione del turismo di massa e all'urbanizzazione della Lessinia con il proliferare di villette e di casette a schiera. Lo sviluppo economico delle città e la maggior disponibilità di denaro, hanno favorito l'acquisto, da parte di cittadini o dei montanari che erano emigrati, di seconde case e di appartamenti che permettono di investire i soldi risparmati, di godere i "freschi" durante l'estate e di essere a contatto con un ambiente naturale.
La proliferazione edilizia è stata favorita anche dalle amministrazioni locali perché portava soldi nelle casse dei Comuni e dava da lavorare alla manodopera locale legata al settore dell'edilizia e a quello dell'industria estrattiva e questo ha avuto come conseguenza la continua espansione delle aree edificabili, si sperava in questo modo di contenere l'emigrazione della montagna.
Certamente questi cambiamenti hanno modificato il legame tra popolazione e territorio non considerato più come un patrimonio da tutelare e fonte di reddito, ma come bene da vendere come qualsiasi altro prodotto. Molti oggi fanno i pendolari e quindi svolgono la loro attività al di fuori della Lessinia o, al contrario, le risorse della Lessinia, come quelle legate all'estrazione della pietra, vengono sfruttate da persone provenienti dall'esterno che si interessano esclusivamente della rendita economica dimostrando spesso scarsa sensibilità per la salvaguardia dell'ambiente.
Una ricchezza della montagna che in questi ultimi decenni si è cercato di sviluppare e quella legata al turismo con la realizzazione di impianti di risalita per allargare la stagione turistica anche al periodo invernale e la creazione di una rete di musei (7 musei più un area floro-faunistica) atta a favorire un turismo culturale durante tutti i periodi dell'anno.
Il Novecento ha segnato per la Lessinia un cambiamento epocale che l'ha fatta uscire dall'isolamento dei secoli scorsi ma al tempo steso ha segnato la fine della società contradale che per secoli aveva caratterizzato la società e l'economia della Lessinia.
La sfida per il nuovo secolo, che è appena iniziato, è quella di uno sviluppo compatibile con l'ambiente, che sappia valorizzare le particolarità paesaggistiche, storiche, culturali ed architettoniche conciliando la permanenza dell'uomo in Lessinia con la salvaguardia del territorio, che offre ampi spazi verdi, queite e riposo a tutti noi che viviamo in ambienti molto antropizzati con ritmi sempre più veloci.
Gemeinde | Bewohnte Häuser | Unbewohnte Häuser | % unbewohnte Häuser |
Bosco Chiesanovo | 1093 | 2922 | 72% |
Cerro | 547 | 886 | 61% |
Erbezzo | 279 | 459 | 55% |
Roveré | 653 | 527 | 44% |
Sant'Anna d'Alfaedo | 847 | 609 | 41% |
Velo Veronese | 273 | 311 | 54% |
Gemeinde | Vor 1919 |
1919- 1945 |
% fino al 1945 |
1946- 1960 |
1961- 1971 |
1972- 1981 |
1982- 1986 |
1987- 1991 |
% 1946- 1991 |
Bosco Chiesanovo | 290 | 93 | 35% | 128 | 247 | 236 | 72 | 27 | 65% |
Cerro | 72 | 16 | 16% | 53 | 160 | 164 | 53 | 29 | 84% |
Erbezzo | 109 | 21 | 46% | 18 | 51 | 60 | 9 | 11 | 54% |
Roveré | 165 | 63 | 35% | 51 | 112 | 205 | 33 | 24 | 65% |
Sant'Anna d'Alfaedo | 294 | 61 | 42% | 54 | 141 | 246 | 29 | 22 | 58% |
Velo Veronese | 128 | 22 | 51% | 19 | 48 | 41 | 8 | 7 | 49% |
Vengono qui trattati alcuni usi e consuetudini tradizionali della popolazione della montagna veronese nei secoli scorsi. Sono il risultato di centinaia di interviste a persone anziane che ho incontrato nel corso dell'ultimo trentennio del secolo testé scorso. Risultano principalmente attinenti al Ciclo della Vita Umana e al Ciclo dell'Anno.
L'Altopiano dei Lessini o "Dei Tredici Comuni Veronesi" da tempo immemorabile ha costituito un'enclave unica e specifica, oltreché per lingua, anche per cultura e tradizioni. Elementi affini ad essa in tutti questi campi vanno cercati maggiormente verso nord (Trentino, Carnia, Tirolo, Carinzia, Baviera) piuttosto che verso sud (Pianura Padana o Italia Centrale). Per un lettore non autoctono sarà perciò opportuno spendere due parole sulla zona e sui suoi abitanti. Trattasi di quell'area collinare e montana a nord est di Verona, tra la Val d'Adige, la Val di Chiampo e la Val di Ronchi. La presenza, insieme all'elemento italiano, della minoranza etnica dei cosiddetti "Cimbri", qui testimoniati sicuramente dal Medioevo e giunti da paesi di area tedesca (1), può giustificare le affinità con le civiltà d'oltralpe. Prima dell'Unità d'Italia queste popolazioni si sono quasi sempre trovate a costituire area di confine, per cui, in cambio del controllo dei passi, da parte di tutti quei regimi (Scaligeri, Serenissima Repubblica, Impero Austroungarico) hanno goduto di una leggera pressione fiscale e di particolari libertà.
Le tradizioni relative al Ciclo della vita umana sono inevitabilmente legate alla famiglia, che fino alla metà del secolo appena trascorso è stata per la sua stragrande maggioranza contadina, patriarcale e polinucleare. Fino alla fine dei suoi giorni padrone indiscusso resta l'anziano capofamiglia; solo alla sua morte gli eredi possono spartirsi il patrimonio e rendersi autonomi. I figli, anche se sposati, rimangono all'interno della famiglia; le figlie se si sposano se ne vanno altrove, ma in un'altra simile situazione. Le decisioni possono essere discusse insieme, ma chi decide è sempre el vecio; se o da quando ne sono in grado, tutti aiutano nei lavori o di casa o nei campi o nei boschi. Non mancano motivi di attrito, ma il rischio di esclusione dall'eredità obbliga tutti ad accettare la situazione e a rimaner sottomessi.
NASCITA E FANCIULLEZZA
Sono i figli e soprattutto i maschi a garantire la continuità della stirpe, oltreché ovviamente la manodopera per l'avvenire; per una sposa è quindi fondamentale la fertilità. Anche se sulla sterilità si può scherzare: ‘O che la pertega no la ghe rìa, o ch'el posso no'l ten!', la donna senza figli è derisa, disprezzata, talvolta odiata. Allo stesso modo è solo per galanteria che si dice: ‘In te le case dei galant'omeni, prima le done e dopo i omeni' per scusare la nascita di una figlia per prima, perché si è convinti che solo ‘quando nasse l'omo, s'à piantà el camin!'.
Si crede anche che sia l'atteggiamento del marito a condizionare il sesso del nascituro: per avere il maschio, durante il rapporto il marito dovrà essere energico, appassionato, ben nutrito e riposato; a tale scopo non si dovranno avere rapporti né di mattina né di lunedì. L'importanza attribuita a questo fatto si può desumere anche dall'interesse con cui si cerca di pronosticare il sesso del nascituro osservando l'aspetto e il pancione della madre. Varie sono le interpretazioni, ma ritenendo più difficoltoso ‘fare' un maschio, un feto maschile cagionerà una donna affaticata, con una cera sfatta e smunta; contrariamente si dice: ‘bela sposa - bela butèla!'. Si ritiene che il maschio sia anche più ‘ingombrante', per cui un pancione grosso che fa allargare i fianchi e aumentare il sedere indica un feto maschile, mentre i fianchi stretti, un pancione minuto, alto e in avanti indicano una femmina, ‘parché l'è rabiosa e la salta su!'.
In ogni caso alla donna in gravidanza viene riservato il massimo rispetto: le si raccomanda di evitare lavori pesanti, a tavola può saziarsi di ciò che vuole e tutti cercano di soddisfare ogni sua eventuale ‘voglia', per timore che macchie cutanee o difetti fisici ‘segnino' il figlio. Lei pure deve far attenzione a molte cose per non recar danno al nascituro: deve togliere quanto porta al collo né mettervi nient'altro per impedire che il cordone ombelicale strozzi il neonato alla nascita. Non deve accudire al bestiame, non deve lavare troppi panni o tenere a lungo le mani in acqua, non deve scavalcare muretti o fili tesi, non deve andare a cavallo, non deve assistere a spettacoli raccapriccianti, non deve parlare con persone colpite da difetti fisici, ecc. per non compromettere il parto o la salute del feto.
Quando ‘gh'è el camin a fogo', cioè all'inizio delle doglie, il marito talvolta corre a chiamare la levatrice comunale, talaltra avvisa alcune comari del circondario che per fama hanno una certa esperienza. Se è di giorno, si è provveduto ad allontanare da casa altri eventuali bambini, magari inviandoli a casa della madre della partoriente che così viene avvisata di quanto sta avvenendo e prontamente arriva con una gallina con cui preparare un brodino per la figlia ad evento avvenuto. Se il parto avviene di notte, per impedire che urla o rumori sveglino i bambini, talvolta la partoriente viene portata in stalla e sistemata su un saccone di foglie o fieno. Alcune levatrici lamentavano la scarsa igiene adoperata in simili circostanze, affermando che taluni portavano la partoriente in stalla o la sistemavano su un mucchio di stracci su un tavolo in cucina solamente per paura di sporcare le lenzuola del letto.
Dopo il parto la donna deve rimanere in camera per la prima settimana e in casa per i primi quaranta giorni: se uscisse in quarantìa potrebbe causare danni alla propria salute e quindi al neonato e disgrazie alle case presso le quali si dovesse recare. Dopo questo periodo, si fa accompagnare il chiesa o dalla suocera o da un'altra persona e ottiene la benedìa, dopo la quale è riammessa a pieno titolo nella comunità. Non deve andare da sola, parché la ga el diaolo a schena, e potrebbe fare brutti incontri e incappare in sorprese pericolose.
Perché cresca belo drito, il neonato viene fasciato stretto dal collo ai piedi anche fino a sei mesi; qualche volta le braccia vengono lasciate fuori, ma non sempre. Quando piange si prova a cambiarlo oppure la suocera, per non far capire nulla agli altri bambini, dice alla nuora: "Proa a scaldarghe el naso!", vale a dire: "Allattalo!".
Formandosi le coppie abbastanza giovani ed avendo numerosi figli, il primo neonato del primogenito di una famiglia, si troverà circondato da zii quasi coetanei ed essendo spesso la nonna ancora fertile, talora si da pure il caso di zii più giovani dei nipoti. Se non trovassero compagnia in casa, la trovano sicuramente in contrada, dove con i coetanei giocano a nascondino, a muffa, a fazzoletto, a guardie e ladri, a parar el sercolo... Non è molto però il tempo lasciato per i giochi, perché appena in grado di far qualcosa sia i maschi che le femmine collaborano nei lavori di famiglia.
AMORE E MATRIMONIO
I ragazzi e i giovani possono prendersi i primi soldi andando a giornada. Se non hanno lavoro in proprio, durante la fienagione i ragazzi diventano segàti e le ragazze risteline, cioè addetti alla falciatura o alla raccolta del foraggio; in autunno i ragazzi diventano batàri e le ragazze cataòre, cioè addetti all'abbacchiatura o alla raccolta delle castagne; nel periodo estivo alcuni ragazzi possono essere impiegati come famej in malga e le ragazze possono trovar lavoro come servéte, cioè come collaboratrici domestiche, presso altre famiglie. Non sempre però percepiscono paghe: talvolta sono messi a panéto, cioè solo in cambio del loro mantenimento.
Sia maschi che femmine partecipano con entusiasmo a tutte le possibili sagre paesane del circondario. Per tutti queste sono anche le prime occasioni per conoscere giovani dell'altro sesso, anche se il miglior ambiente per un giovane in cerca di fidanzata è il filò serale che si tiene in tutte le contrade. Solitamente da ottobre a maggio, nella stalla più capiente della contrada o del proprietario più ospitale o influente (talvolta anche in più stalle, se la contrada è grossa), tutte le persone si riuniscono circa dalle 20 e fin verso le 23. Se ne approfitta anche per fare dei lavoretti: gli uomini impagliano sedie, costruiscono cesti di vimini, aggiustano o preparano attrezzi; le donne filano lana, rammendano, lavorano di cucito o a maglia. Nel filò prima si recita il Rosario, poi si parla di affari, di prezzi, si discute, si raccontano storie, ci si corteggia tra ragazzi. Nel filò la porta non è mai chiusa a chiave, ma c'è libero accesso per chiunque. Siccome solo i maschi possono andare in giro di sera, è ovvio che le ragazze si trovino sul filò della propria contrada e che qui le raggiungano i ragazzi. I giovani non vengono mai lasciati da soli ma sono sempre vigilati dagli adulti. Ai giovani si consiglia di far caso anche alle qualità o caratteristiche che deve avere la futura sposa: fondamentale è che la tasa, che la piasa e che la staga in casa; non è opportuno andare troppo lontano a cercarsi la ragazza: strope in le sese e done dal so paese; oltre che dispendioso può essere rischioso, per cui: l'è mejo bruta, ma comoda per poterla controllare; la bellezza fisica conta meno della ricchezza: l'è mejo na bruta figura de on bruto contrato; è preferibile che la sposa sia giovane: vin vecio e done doene, anche se non sono sempre da escludere quelle più mature: l'è la galina vecia che fa el brodo bon. Simili avvertimenti vengono dati anche alle ragazze: è preferibile che il futuro sposo abiti verso il piano che verso il monte: i è le pegore perse che va in su; si consiglia di guardare la sostanza più che la prestanza: varda el punaro e no el galo perché i fioi no i domanda: pupà belo, ma : pupà, pan!; anche le qualità morali cedono di fronte alla ricchezza: tolo marso, ma sior!; controllare che abbia una florida azienda: ch'el gabia almanco diese vache, el toro e el caval moro; qualche saggia madre sa però che anche la soddisfazione di coppia ha grande importanza: ch'el gabia casa e campi, ma anca carcossa davanti!.
Dopo un fidanzamento di durata variabile, ma solitamente di alcuni anni, il ragazzo chiede la mano della fidanzata al padre di lei. Se viene concessa, i nubendi si recano dal parroco per le pubblicazioni. In questo periodo diventano più frequenti gli incontri e gli inviti a pranzo tra le famiglie dei due, anche per mettersi d'accordo sugli ori, sugli inviti, sulla dote. Dapprima va il ragazzo con i genitori a casa della fidanzata: questa festa viene detta ‘nar a sbregar la cioca'; qualche festa dopo i genitori della futura sposa (quasi mai lei, perché non si ritiene le porti fortuna il vedere prima dove sarebbe andata ad abitare) si recano a casa del fidanzato: questa festa viene detta ‘nar a vedar can de corte'. Anche se prematuro, avvertiamo qui di un'altra festa: qualche domenica dopo le nozze i genitori della sposa i torna a torse la pele, cioè vanno a trovar la figlia nella nuova casa, per concludere eventuali conti sospesi e per portarsi via ‘la pelle' della figlia: è come dire che la giovane deve completamente rinnovarsi, cambiando vita, modi e abitudini.
I periodi più richiesti per i matrimoni sono la primavera e l'autunno, ma non la Quaresima e periodi di intensi lavori agricoli. Si celebrano quasi sempre di sabato, (o di domenica) e al mattino presto, perché gli sposi per poter fare la Comunione devono essere digiuni dalla mezzanotte. Lo sposo con il suo seguito di invitati si reca all'abitazione della sposa, che aspetta quest'arrivo per scendere di camera. Il gruppo di invitati con la sposa si aggrega all'altro gruppo e ci si avvia alla chiesa. Alla partenza dei cortei, soprattutto in Lessinia orientale, a scopo augurale vengono sparati alcuni colpi di trombin (2); altrove si sparano a salve alcuni colpi di fucile. Lungo il percorso si possono trovare varie sbare o fermative: dei giovani bloccano il percorso al corteo con legni o altro; gli sposi stessi devono iniziare a rimuovere l'ostacolo; dopo essersi fatti promettere dolci o vino, anche gli autori aiutano a rimuovere l'ostacolo. Gli sposi all'andata camminano col proprio gruppo; solo al ritorno cammineranno insieme. Dopo la cerimonia solitamente il parroco invita in canonica gli sposi con i compari e offre loro una cioccolata calda o una piccola colazione. Ancora in corteo, ma non con tutti gli uomini perché qualcuno si ferma in paese, ci si avvia a casa dello sposo per il pranzo di nozze.
E' di solito la suocera che, aiutata da qualche cuoco del circondario, ha preparato il pranzo. Consiste solitamente in: tagliatelle fatte in casa cotte nel brodo, bollito misto con la pearà, pollo o manzo arrosto con varie verdure cotte e crude, formaggio locale, dolce casereccio, caffè e vino buono. Uno scherzo ‘piccante' è servire agli sposi un pezzo di formaggio molto stagionato, per l'occasione chiamato formajo pincion. Altro scherzo può essere portare alla sposa in una scatola chiusa o in due scodelle chiuse una contro l'altra un passerotto: quando lei aprirà l'uccello spiccherà il volo tra gli applausi dei commensali. Se non c'è tra gli invitati, talvolta si invita appositamente qualche cantastorie ad intonare delle filastrocche adatte o un suonatore di fisarmonica che esegua qualche musica ballabile. Altri scherzi possono essere fatti nel letto agli sposi: lenzuola cucite nel mezzo, ortiche o ricci di castagne sotto le coperte, polvere di cavallo che mette un tremendo prurito, barattoli appesi sotto le reti che faranno rumore appena i due si coricheranno, ... Ma non tutte le suocere permettono che le nozze finiscano in una gazzarra a volte esagerata od oscena. Le nozze sono considerate il giorno più bello per uomini e donne, per cui di solito per i banchetti nuziali non si bada a spese; si è coscienti che dopo finisce tutto nel consueto, tra preoccupazioni, lavoro, casa e figli.
VECCHIAIA E MORTE
La famiglia patriarcale permette che nessuno si senta inutile né venga abbandonato a se stesso. Le persone restano nell'ambito della famiglia fino alla fine dei loro giorni; garantiscono una presenza assidua in casa, possono almeno tener d'occhio i bambini finché i genitori lavorano all'esterno, si rendono utili riparando qualche attrezzo o rammendando qualche vestito, si tiene conto dei loro consigli o giudizi, frutto spesso di lunga esperienza: trista co'la cà, che udor da vecio no la sa. Arrivato in età avanzata il capofamiglia provvede a far testamento; è pur questa un'arma che gli consente di non venir trascurato o disobbedito, perché incute rispetto la possibilità di risultarne esclusi. Solo chi non si è formato una famiglia corre il rischio di una morte solitaria: ne la grupia more el barba, sensa che nessun lo guarda.
L'avanzare dell'età e l'approssimarsi della dipartita può portare ad una più intensa frequenza religiosa o ad una più composta serietà: quando el corpo el se frusta, l'anima la se giusta. Anche il parroco, ove possibile, intensifica le visite a domicilio delle persone più anziane per portar loro la Comunione e per rendere meno traumatica la visita finale, quando i parenti del moribondo lo chiamano perché gli impartisca l'Estrema Unzione. C'è chi scherza anche su questo rito e per indicarlo dice che è passà el prete a ondarghe le rue. Quando il parroco si reca col viatico presso un moribondo, se non è un caso proprio urgente, viene accompagnato da quattro confratelli con le lanterne astili, da uno con l'ombrellino e da due chierichetti con incenso e acqua santa. In qualche caso viene dato anche uno o più segni con le campane. Quando si capisce che uno si sta lentamente ma inesorabilmente spegnendo, si dice che el va avanti come la piera in t'el quaro (3) si avvisano i parenti più prossimi qualora ci sia qualcuno che intende vederlo ancora da vivo.
Appena uno è spirato, un parente si reca ad avvisare il parroco che provvede subito a far dare un segno di campane. Viene suonata a tocchi cadenzati la campana più grossa per un uomo, la seconda per una donna, la campana più piccola se dovesse trattarsi di un bambino, che una volta non erano rari. Verranno in seguito dati altri due o tre segni giornalieri fino alla sepoltura. Chi va ad avvisare il parroco di solito torna portando anche quattro candelieri che vengono messi a fianco del letto. Chi è rimasto a casa, dapprima apre la finestra per cambiar l'aria sicuramente viziata; qualcuno ritiene che sia par liberar l'anima. Si provvede poi a pulire il cadavere, a vestirlo con il miglior vestito, ad incrociargli le braccia sul petto con un Rosario o un Crocefisso tra le mani e a sistemarlo sul letto sopra un'asse perché resti diritto. Si mette infine nella stanza qualche vaso di fiori. Per ogni notte che il defunto resta in casa (massimo due, anche se nei paesi più alti l'abbondanza di neve può in qualche caso protrarre il funerale in attesa di adatte condizioni meteorologiche), alcune persone restano sveglie tutta la notte in un locale adiacente o sottostante a tendar el morto, cioè a far la veglia. Se resta anche qualche donna, solitamente si chiacchiera e ogni tanto si recitano delle preghiere; se restano solo uomini si fanno pure delle gran partite a carte, si beve qualche bicchiere di vino e ogni tanto qualcuno sale a dare un'occhiata al defunto.
Abitudine molto seguita e partecipata in quest'area è la recita del Rosario a domicilio del defunto. Per tutte le sere prima del funerale, non solo i parenti, ma quasi tutti gli abitanti di un circondario abbastanza esteso, quando c'è un morto in una famiglia non recitano il Rosario nel filò della loro contrada, ma si recano presso costoro e lo recitano sul posto. Solitamente viene recitata una corona, ma talvolta anche tre, seguite dalle Litanie dei Santi, della Madonna, da vari Requiem ed eventuali atre formule. Qualcuno dopo la recita offre un bicchiere di vino ai convenuti.
I funerali si tengono quasi sempre al mattino, per dar modo ad eventuali parenti anche lontani di poter poi tornare a casa nel pomeriggio. Il parroco talvolta si reca all'abitazione del defunto per benedire il cadavere prima che venga chiusa la bara, talaltra aspetta il corteo alla porta della chiesa. Il alcuni paesi è abitudine realizzare ghirlande di fiori, naturali o di carta, di colore diverso a seconda del defunto: fiori scuri o rossi per anziani uomini o donne, fiori azzurri o rosa per giovani maschi o femmine, fiori bianchi per bambini. Poche parrocchie dispongono di un apposito carro funebre trascinato da cavalli o buoi; per la maggior parte il feretro viene portato a spalla da quattro appositi portamorti, che dopo vengono anche pagati. Se il percorso risulta troppo lungo o il feretro troppo pesante, possono anche essere in otto e portare o a turno o insieme, dopo aver appeso la bara a delle apposite stanghe. Gli appartenenti alle varie confraternite, sia maschili che femminili, se ce l'hanno, devono partecipare al funerale con la divisa.
Tutti in casa sono tenuti a portare il lutto per un familiare defunto. La vedova o il vedovo si vestono di nero o di colori scuri per circa un anno o più; i figli e le figlie si vestono di colori scuri per almeno sei mesi e portano un nastro nero al collo della maglia o della giacca o sul cappello per circa sei mesi. Recentemente il nastro nero è stato sostituito da un apposito bottone da mettere all'occhiello. Le più comuni commemorazioni del defunto sono in corrispondenza del setimo, trigesimo e caodano, cioè si celebra una messa di suffragio dopo sette giorni, un mese e un anno. El caodano è spesso ripetuto per molti anni appresso.
IL CICLO DELL'ANNO
Non mi risulta che capodanno sia atteso in maniera particolarmente festosa o rumorosa; verso sera del 31 dicembre si va in chiesa per cantare solennemente il Te Deum e poi a casa si fa un filò un po' più lungo del solito, magari davanti a na padelà de castagne e a qualche bicchiere de graspìa. Più per curiosità o scherzo che per vera convinzione, al mattino del primo gennaio qualche ragazza in età da marito prima di scendere da camera getta in fondo alla scala le sgalmare (4): se rimarranno diritte e orientate verso l'uscita, entro l'anno si sposerà; se si rovesceranno può darsi che il fidanzamento vada a monte; se si orienteranno verso l'interno, dovrà aspettare ancora del tempo per convolare a nozze. Anche se non mi risulta che venissero effettuate particolari sparatorie, non si può escludere che, soprattutto in Lessinia orientale, tuoni qualche trombin. Al mattino del primo dell'anno per un uomo non è di buon auspicio incontrare una donna, soprattutto se vecchia o brutta; le donne non si recano in casa d'altri per non portar loro sfortuna.
Dall'inizio dell'anno fino all'Epifania passano per le varie contrade giovani a cantar la stela: con una grossa stella di carta infissa sopra un'asta e illuminata da una candela, possibilmente accompagnati da un suonatore di fisarmonica, girano di casa in casa cantando una melodia relativa ai Re Magi. Dalle famiglie ove passano ottengono mele, castagne, noci o un bicchier di vino. Alla sera dell'Epifania sul monte più alto adiacente ad ogni contrada viene acceso un gran falò di stoppie: è detto brusar el bruièlo o brusar la strìa.
A seconda che la Pasqua caschi ‘alta' o ‘bassa', Carnevale dura dall'Epifania solitamente fino ai primi di febbraio o ai primi di marzo. E' comune abitudine dei giovani della Lessinia andare mascherati in giro per i vari filò e inscenare delle burle o delle scenette comiche. Se risultano mascherati talmente bene da riuscire a non farsi riconoscere da nessuno degli astanti, si dice che ‘i ga portà ìa el galo'; potrà significare che in tempi più antichi fosse in palio un gallo per la compagnia teatrale che riusciva a mettere in scena il miglior spettacolo? Qualcuno narra anche di maschere che nell'andarsene abbiano lasciato un attore, apparentemente addormentato, appoggiato ad una colonna. Quando gli altri se ne sono accorti e hanno provato a svegliarlo, si sono resi conto che era morto. Che qualcuno abbia approfittato dei mascheramenti anche per effettuare o nascondere qualche omicidio? In vari paesi durante il Carnevale si mettono in scena anche vere commedie o tragedie, del Metastasio, dell'Alfieri, del Goldoni o di altri, che vengono rappresentate nel teatrino parrocchiale. In ogni casa è abitudine preparare le fritole, fatte con farina, latte, uova, zucchero, frutta o uva passa e fritte nello strutto del maiale da poco ammazzato.
Una cerimonia particolarmente significativa, che può indicare sia l'uscita dall'inverno che l'ingresso della primavera, è detta Ciamar Marso. Durante le due ultime sere di febbraio e la prima di marzo giovani di contrade contrapposte di una vallata escono sopra un colle con secchi, campanacci, pezzi di metallo o qualsiasi altro oggetto atto a far rumore e tra schiamazzi e grida si chiamano da un versante all'altro. Nei loro scherzosi diverbi, per le prime due sere combinano matrimoni fasulli accoppiando elementi (es. un monte con una valle) o nomi per burla (es. un gobbo con una vecchia zitella, un poveraccio con una pretenziosa); la terza sera invece celiano effettive coppie di fidanzati. Adoperano anche un formulario in parte predisposto e variamente adattabile; ne ho raccolto diverse varianti (5) e ne ripropongo una:
- Sta per entrar marso in questa tera
par maridar na puta bela.
- Ci èla? Ci no èla?
- L'è la ........., che l'è la pì bela!
- Ci ghe denti par marì?
- El ........., che l'è on bel fiolo.
- Sa ghe denti par dota?
- Na cavra smarsa tacà a na stropa!
- Sa ghe denti par nissoi?
- Quatro scorse de fasoi!
- Sa ghe denti par cavessale?
- Na barela da sbondare!
- Ghe fenti anca la stima?
- Metendoghe na galina insima!
- Alora, ghe l'enti da dare?
- Denghela! Denghela che l'è soa!
Dopo la malinconica Quaresima, assieme alla primavera arriva la Pasqua a sollevare gli animi. E' anche il periodo degli amori: la notte della vigilia della Domenica delle Palme il fidanzato deve riuscire nascostamente a portare davanti alla casa della fidanzata la palma: un rametto d'ulivo abbellito con nastri, fiocchi e dolciumi. Se lei la porterà in processione il giorno dopo è confermato e accettato il loro amore. Deve fare attenzione però che non se ne accorgano invidiosi o rivali, che potrebbero sostituire la palma col fantoccio di un vecchio, magari con una siatira appesa. In questo periodo è frequente la partecipazione a tutte le celebrazioni religiose, sulla mensa di ogni famiglia non manca un piatto di uova sode, le massaie vanno a gara nell'impastare fogasse de Pasqua, brassadèle, colombete,... arricchite con burro e latte, adornate con zucchero e tuorlo d'uovo.
Maggio non è considerato un buon mese per i matrimoni, perché è detto el mese dei mussi, cioè il mese in cui gli asini vanno in amore. Al primo di questo mese i ragazzi possono prendere in giro le ragazze più pretenziose fandoghe i mussi: allestiscono con canne e stracci il fantoccio di un asino, vi appendono un foglio con una siatira irriverente nei confronti delle giovani da dileggiare e lo appendono nascostamente ad un albero nei pressi dell'abitazione delle stesse. Talvolta vi mettono il fantoccio di un uomo a cavallo, che dovrebbe rappresentare un pretendente indesiderato.
Una notte particolarmente significativa è considerata quella tra il 23 e il 24 giugno: la note de san Gioani. Alla sera le donne stendono sull'erba pulita delle stoviglie di cotone, le raccolgono al mattino dopo e le strizzano:
con l'acqua che ottengono impastano el levà per il pane. Devono essere raccolte in questo giorno ed essiccate all'ombra le erbe medicinali perché non perdano la loro efficacia. Se si rompe in questo giorno un rametto di geranio o altro fiore e si mette sulla inferriata della finestra, fiorirà comunque e rimarrà verde fino all'inverno. Si conserva un uovo deposto in questo giorno per fare la barca de san Piero la notte del 28 giugno. E ancora: se una ragazza intende sposarsi, basta che si rotoli nuda nell'erba durante quella notte e troverà marito nel corso di quell'anno.
Durante i mesi estivi e autunnali fervono più intensi i lavori agricoli; la fienagione, la mietitura, la trebbiatura, la raccolta delle castagne, dell'uva e di altri frutti offrono meno tempo sia per pensare che per architettare scherzi. Oltre alla possibilità di guadagnarsi qualche lira in impegni temporanei, per i giovani queste opportunità costituiscono altresì occasioni d'incontro, come la frequente partecipazione alle numerose sagre paesane. Caratteristica abitudine di molte famiglie per il primo novembre è lasciare la tavola apparecchiata e il fuoco acceso nel camino, perché si crede che quella notte i morti possano tornare alle loro case e vogliano rifocillarsi. In alcuni paesi vengono suonate le campane per l'intera notte da gruppi di giovani che si alternano. Dopo mezzanotte in una casa vicina delle donne cucinano un piatto di gnocchi per i suonatori, che li accompagnano con qualche bicchiere di vino caldo.
Dai bambini di ogni contrada lessinica è ansiosamente attesa la notte prima del 13 dicembre, perché arriva Santa Lucia a portare loro regali: una collana di castagne, qualche bambola di stoffa fatta dalla nonna o dalla mamma per le bambine e qualche giocattolo di legno fatto dal papà per i bambini, qualche caramella o cioccolatino, qualche fico secco o carobola o, più recentemente, arance o mandarini.
In qualche abitazione il fuoco resta acceso anche la notte di Natale. Durante l'anno si tiene da parte un particolare ceppo, magari perché duro da rompere, che viene detto la soca de Nadal. Viene messo a bruciare in quell'occasione perché si dice ai bambini che potrebbe passare la Sacra Famiglia e potrebbe aver bisogno di asciugare le fasce a Gesù Bambino. Presumibilmente l'abitudine rispondeva alla necessità di trovare la casa riscaldata quando si fosse tornati dalla Messa di Mezzanotte.
Il processo di assimilazione linguistica del cimbro in Lessinia si è interrotto subito dopo l'arrivo dei coloni dalla Baviera, iniziando così, un progressivo processo di disgregazione linguistica che ha portato la popolazione cimbra ad un inesorabile attacco all'unitarietà culturale e quindi linguistica delle famiglie della Lessinia.
Questa devoluzione linguistica e culturale, all'inizio lenta, ha portato alla situazione attuale che vede, secondo stime non ufficiali, i parlanti attivi in circa 80 unità di cui una trentina residenti in Lessinia e soprattutto a Ljetzan-Giazza, ultima isola linguistica del "cimbro" dei XIII Comuni Veronesi.
Secondo le stesse stime ci sarebbero circa 150 parlanti passivi in tutto il territorio della provincia di Verona.
Oggi la lingua cimbra non viene usata correntemente neanche tra i parlanti attivi rimasti, fatto estremamente negativo per rallentare la perdita definitiva della parlata attiva tendendo a divenire un idioma con caratteristiche prettamente storiche e culturali ma non certo effettive.
Ci sono casi sporadici di trasferimento di vocaboli, piccole frasi e ninna nanna, ai bambini nell'ambito familiare.
Il suo uso si limita a scambi di saluto o di brevi frasi di circostanza.
I toponimi non deformati sono invece di uso corrente e utilizzati da tutti ,indistintamente.
In questa situazione, è facile capire, quanto sia difficoltoso operare delle scelte didattiche efficaci.
Da anni viene effettuato un corso serale facoltativo extrascolastico che coinvolge i parlanti attivi e desiderosi di apprendere la lingua cimbra . Si chiama "Tzimbar Lentak-Cimbro Vivo" e questo nome è molto indicativo della situazione. Questo corso è organizzato dal Museo dei Cimbri di Ljetzan-Giazza sotto la direzione dell'associazione culturale Curatorium Cimbricum Veronense che da oltre 25 anni si occupa della tutela e salvaguardia della lingua, cultura, tradizione e follkore dei cimbri della Lessinia.
In sintonia con questa pluriennale esperienza, da quattro anni si svolge un corso di lingua e cultura cimbra presso la scuola elementare del comune di Selva di Progno .
Questo corso che occupa i bambini delle ultimi classi per un'ora alla settimana nell'ambito dello spazio dell'autonomia scolastica, è denominato Bar bia Iar- Noi come Voi in nome alla diversità culturale quale patrimonio dell'umanità.
Sono comunque stati presentati vari progetti per dei corsi linguistici ufficiali nell'ambito della legge 482 sia per alunni che per docenti.
C'è ancora memoria di preghiere in lingua cimbra ma non vengono più usate durante le celebrazioni religiose anche per insensibilità al problema.
Si sta puntando anche all'utilizzo dell'effetto mediatico per poter incidere sul grosso problema dell'appiattimento linguistico -culturale in atto.
Un sito internet, un sistema di collegamento in videoconferenza, un notiziario una radio-web ed altro, sono i mezzi utilizzati in questo momento sulla rete.
Un progetto per costituire una radio satellitare che possa dare voce a tutte le istanze linguistico/culturali d'Europa è un altro mezzo che aiuterà la vita, lo sviluppo, ed anche forse la reintroduzione del grande patrimonio linguistico culturale di tutta l'Europa potrà dare un forte contributo ad una visione nuova dl problema delle minoranze, un visione multiculturale, che pur essendo una visione globale ,di fatto si contrappone a quella della "monocultura" della maggioranza dovuta alle capacità e forza economiche.
Gemeinden | Aktiv Sprechende |
Azzarino | 199 |
Campofontana (Ortsteil Selva) | 166 |
Roverè di Velo | 2579 |
San Bartolomeo al tedesco | 662 |
Selva di Progno (mit Ljetzan) | 383 |
Velo | 1265 |
Insgesamt | 5254 |
Pfarren der Lessinia | 1553 | 1592/93 | 1613 | 1634 | 1657 | 1671 | 1700 |
Badia Calavena | - | - | - | - | 1300 | 1000 | 1250 |
Campofontana | - | - | 350 | 300 | 220 | 294 | 285 |
Cerro | 180 | 500 | - | - | 250 | 240 | 400 |
Chiesannuova | 1000 | 1300 | - | - | 1100 | 1200 | 1320 |
Erbezzo | - | 300 | - | - | 500 | 500 | 600 |
Rovere di Velo | 390 | 1000 | 1600 | 546 | 800 | 700 | 713 |
San Bartolomeo | - | 500 | 360 | 265 | 390 | 529 | 547 |
San Mauro Saline | 500 | 900 | 850 | - | 500 | 400 | - |
San Vitale | 500 | - | 180 | - | - | 100 | 561 |
Selva di Progno | - | 250 | 600 | 280 | 400 | 325 | 561 |
Val di Porro | - | 350 | - | - | 100 | 300 | 340 |
Velo Veronese | 750 | 1110 | 950 | 506 | 500 | 780 | 560 |
Gesamt | 4373 | 6200 | 4350 | 1897 | 6070 | 6260 | 7033 |
Associazione culturale "non profit" CURATORIUM CIMBRICUM VERONENSE
Il "Curatorium Cimbricum Veronense" (associazione nota anche come "Cimbri della Lessinia"), con sede sociale a Giazza di Selva di Progno (Verona), presso il Museo Etnografico "G. Cappelletti", è stata ufficialmente costituita con atto notarile nel febbraio del 1974.
Recentemente lo Statuto è stato aggiornato e modificato durante l'Assemblea Generale Straordinaria dei soci che si è tenuta a Velo Veronese (prov. di Verona) ed è stato registrato presso l'Ufficio Atti civili dell'Ufficio di Registro di Soave (Verona).
Gli scopi e gli indirizzi statutari dell'Associazione si compendiano in attività prevalentemente culturali, quali la riscoperta, la tutela e la divulgazione del linguaggio, della storia e delle tradizioni delle comunità "cimbre" dell'Altopiano della Lessinia, con particolare attenzione alla gente e al paese di Giazza dove una sessantina di persone continuano a parlare questo antico linguaggio tedesco. L'Associazione è condotta da un Presidente e da un Vicepresidente assistiti da un Consiglio di Amministrazione di altri sette consiglieri, da un Collegio di Revisori dei Conti, da una terna di Probiviri che fungono anche da coordinatori delle attività del Curatorium.
I tre organismi associativi vengono eletti ogni quattro anni dall'Assemblea dei Soci. Durante l'Assemblea annuale ordinaria vengono presentati, discussi e approvati, per alzata di mano o con votazione segreta, il Rendiconto Consuntivo dell'anno sociale concluso e il Programma delle attività e delle iniziative dell'anno nuovo con il relativo bilancio di previsione. Le deliberazioni in merito ai Conti Consuntivi e ai Programmi di Attività vengono regolarmente inviati in copia conforme alla Comunità Montana della Lessinia, alla Regione del Veneto, alla Provincia di Verona, alla Fondazione Cariverona, al Consorzio Bim Adige di Verona e ad altri enti pubblici della provincia.
Nei primi 10 anni dalla sua costituzione l'Associazione è stato presieduta da Giovanni Faè, che ne è stato anche uno dei fondatori e il primo direttore responsabile della rivista, organo ufficiale del Curatorium, la quale, in un primo tempo fu denominata "Vita di Giazza, poi "Vita di Ljetzan Giazza, quindi "Vita di Giazza e di Roana"; successivamente ha cambiato testata con la dicitura "Terra Cimbra" che è durata fino al 1979 ed ha complessivamente pubblicato oltre un centinaio di fascicoli per un totale di oltre 2.000 pagine.
Nel 1979 ha preso le redini dell'Associazione e della rivista - che ha cambiato ulteriormente la denominazione con quella attuale di "Cimbri - Tizimbar" - un altro gruppo di soci, i quali hanno badato sia alla stampa della rivista a scadenza semestrale, sia a quella di un giornalino annuale, come di altre opere saltuarie e complementari dando loro una nuova impronta e una nuova linea. Il nuovo gruppo dirigente ha così editato ben 28 numeri della rivista di circa 150 pagine l'uno, sei opuscoli integrativi di 70 pagine l'uno, numero 20 numeri di un giornalino "Cimbrinotizie" di 12 pagine l'uno in 3500 copie per ogni numero che è stato regolarmente distribuito gratuitamente a tutti gli alunni delle scuole elementari e medie della Lessinia
Ha dato alle stampe poi 4 opuscoletti di 36 pagine l' uno della serie "I tascabili" ("La carbonàra", "La calcàra", "I trombini", "La giassàra)"
Ha stampato un numero speciale "Orchi, anguane fade" in 2000 copie; relazioni di un convegno che aveva organizzato nei Colli Berici di Vicenza.
SOCI
Quando cambiò il consiglio di Amministrazione nel 1979 i soci erano 21. Oggi sono 400.
MUSEO DEI CIMBRI DELLA LESSINIA
È di proprietà della Comunità Montana della Lessinia che però, fin dal giorno della sua apertura (1972), l'ha affidato alla direzione e alla gestione del Curatorium Cimbricum Veronense. Nel 1998 è stato completamente ristrutturato e sono stati rifatti a nuovo gli spazi espositivi e i percorsi didattici. Visitatori paganti annui: circa 2300. Attualmente la Comunità Montana della Lessinia ha dotato il Museo di un servizio di "Server-Internet" che collega tutte le otto centraline istallate in altrettanti locali dei comuni della Lessinia che fanno parte del territorio degli ex Tredici Comuni Cimbri Veronesi.
Dal mese di ottobre 2002 il Museo è diventato anche ufficialmente sede sociale, direzionale e amministrativa dell'Associazione, di cui è presidente Giovanni Molinari e Vicepresidente Vito Massalongo. Gestisce il museo la signora Marisa Vantini.
Funziona anche da Sportello linguistico/culturale cimbro (legge 482), da Centro di Documentazione multimediale e cartaceo dei Cimbri della Lessinia e da sede redazionale e di trasmissione della Radioweb e FM Cimbri-Lessinia gestita sempre dal Curatorium Cimbricum Veronense.
ORGANISMI DELL'ASSOCIAZIONE
Dal 20 gennaio 2001, a norma di statuto, gli organismi rappresentativi dell'Associazione sono:
a- Il presidente (Giovanni Molinari)
b- Il vicepresidente (Vito Massalongo)
c- I consiglieri: Alessandro Anderloni, Ezio Bonomi, Elisa Caltran, Vito
Massalongo, Nadia Massella, Marzio Miliani, Giovanni Molinari, Giovanni
Rapelli, Aldo Ridolfi.
d- I probiviri: Attilio Benetti (presidente), Carlo Caporal, Bruno Menaspà.
e- I revisori dei conti: Clementina Presa, Carlo Capobianco, Bruno Corradi.
f- Il comitato scientifico: Ezio Bonomi (presidente), Giovanni Rapelli, Aldo
Ridolfi.
g- Organo ufficiale dell'Associazione: (la rivista semestrale) «Cimbri - Tzimbar»
e il giornalino per scolari e famiglie (un numero all'anno) «Cimbrinotizie».
Registrata presso il Tribunale di Verona al n. 940 del 25 maggio 1990.
h- Il direttore responsabile della rivista: Piero Piazzola
Il vicedirettore: Carlo Caporal
RICONOSCIMENTI UFFICIALI
1. Il Curatorium Cimbricum Veronense è stato riconosciuto a livello regionale
dalla Legge n. 73 del 1994 e, pertanto, riceve un contributo da essa.
2. È in corso il riconoscimento anche da parte dell'Amministrazione Provinciale
di Verona, la quale, però, non ha mai concesso contributi.
Gli 8 comuni della Lessinia, un tempo parlanti cimbro, hanno
riconosciuto l'associazione Curatorium Cimbricum come l'unico soggetto
giuridico veronese preposto alla salvaguardia della cultura cimbra.
3. La legge n. 482 per il riconoscimento delle lingue minoritarie è in arrivo da
Roma.
4. Il Curatorium Cimbricum Veronense è stato riconosciuto ufficialmente da
parte della Comunità Montana della Lessinia come "Associazione
sovracomunale promotrice di cultura" in Lessinia.
MANIFESTAZIONI
I. Ha celebrato 13 "Feste dei Cimbri" spostando la festa di anno in anno in una delle località degli ex Tredici Comuni Veronesi. L'ultima manifestazione si è tenuta a Bosco Chiesanuova il 31 agosto e il 1° settembre 2002, in occasione del trasferimento della sede della Comunità Montana della Lessinia da Verona a Bosco Chiesanuova.
II. Ha celebrato quattro "Feste del Fuoco" a Giazza in collaborazione con la Pro Loco "Ljetzan-Giazza" e con l' A.P.T. n . 13 di Verona; nel 2002, invece, l'Azienda di promozione è stata abolita e la manifestazione l'hanno sostenuta solo il Curatorium e la Pro Loco.
III. Ha inventato, promosso e condotto in porto, con molto successo, già
IV. 8 edizioni del Filmfestival; la prima edizione a Bosco Chiesanuova, poi a Erbezzo e adesso con sede fissa a Cerro Veronese.
V. Ha portato a compimento 12 viaggi culturali in diverse isole linguistiche di origine tedescofona dell'Arco Alpino più una in Baviera, una Salisburgo e una a Berna (Svizzera)
VI. Ha celebrato con successo un primo Convegno Culturale a Tregnago nel novembre del 1987 per celebrare i "700 anni di storia cimbra veronese" con la pubblicazione dei relativi atti; un secondo il 5 luglio 1997 a Cerro Veronese dal titolo "Lessinia, terra di Cimbri", con la raccolta degli atti; un terzo a Bosco Chiesanuova nel luglio del 2001 con tema: "L'Architettura in Lessinia".
VII. Ha celebrato il 18 settembre 1999 un 3° Convegno Culturale a Verona dal titolo "Antichi Tedeschi a Verona".
VIII. Nei mesi di settembre/ottobre dell'anno 2000 ha organizzato, presso la Biblioteca Civica di Verona, una Mostra documentaria dal titolo "I Cimbri: duemila anni tra storia e leggenda", durata 40 giorni, visitata da circa 2000 persone e, a chiusura, un convegno dal titolo "Antichi tedeschi a Verona"i cui atti sono stati pubblicati in un numero della rivista.
IX. Dal 1989, fino ad oggi, ha organizzato 14 Assemblee Generali Ordinarie dei soci, (e una straordinaria) in una località diversa dei 13 Comuni Veronesi, sempre molto partecipate. Il Curatorium nel 2002, per esempio, si è riunito 14 volte ufficialmente; altrettante in occasione di manifestazioni, delegazioni, riunioni specifiche.
X. A Giazza fino allo scorso anno e a Selva di Progno lo scorso anno, presso la scuola elementare sono stati organizzati dei corsi per il riapprendimento del cimbro e per la promozione e la conoscenza della cultura della Lessinia. L'ultima esperienza è culminata con la pubblicazione di una libretto a fumetti dal titolo "Bar lirnan tauç" (noi parliamo cimbro).
XI. Il Museo è stato presente a molte manifestazioni fieristico-culturali. Nel 1999 il Museo (per la Lessinia) è stato presente in sei manifestazioni (Aiola Emilia - Gonzaga - Venezia - Musei nel Veneto - Campionaria Sant' Ambrogio -Gorizia)........
FINANZIAMENTI PUBBLICI E PRIVATI
Fino alla data odierna il Curatorium ha ricevuto aiuti economici da:
1. Comunità Montana della Lessinia
2. Fondazione Cariverona di Verona
3. Regione del Veneto (legge regionale n. 73 del 1994)
3. Contributi volontari da soci (ma molto ridotti.
Il Curatorium incassa dalle quote sociali circa 6.000 euro ogni anno (la quota annuale è di € 15,50).
PROSPETTIVE
Sono piuttosto deludenti. Gli enti pubblici sunnominati hanno bilanci che di anno in anno si restringono e, pertanto, viene ulteriormente a mancare al Curatorium la tranquillità economica che possa garantire l'effettuazione dei progetti e dei piani di lavoro.
I soci non concorrono più di tanto.